“La barbarie è lo stato naturale dell’umanità”, disse l’uomo della frontiera guardando ancora seriamente il cimmero[note]La Cimmeria è una regione immaginaria popolata da barbari nella Terra antidiluviana e la regione d’origine di Conan il barbaro nelle opere di Robert E. Howard. La Cimmeria è descritta da Howard come una terra brulla, con aspre montagne e foreste scure e ombrose.
https://it.wikipedia.org/wiki/Cimmeria_(Hyboria)[/note].
“La civiltà è innaturale. È un capriccio delle circostanze.” … “E la barbarie, alla fine, deve sempre trionfare.”
Robert Ervin Howard[note]Robert Ervin Howard su wikipedia.[/note]
Un fantastico catalogo di films[note]http://www.cinemedioevo.net/[/note], sulle invasioni barbariche e la caduta dell’Impero Romano ci mostra come, nell’immaginario collettivo, il “costume” barbaro si è evoluto. Dal 1908 fino alla metà degli anni ‘50, tra il fantasy e l’epico-realista, l’iper-concettuale e il grottesco, sono stati prodotti chilometri di pellicola che ci restituiscono un’immagine del popolo barbaro perlopiù negativa.
Nell’eterna lotta tra il bene e il male, il barbaro viene rappresentato, nella maggior parte dei film, come il lato il lato oscuro e malefico dell’umanità.
Attila il cosiddetto “flagello di Dio” è, tra tutti i barbari, il più rappresentato.
Nel film “Attila, the Scourge of God” del 1918, il volto del leggendario e crudele flagello è quello di Febo Mari che della pellicola ne è anche il regista. Il film all’epoca venne recensito così:
Dal “The Bioscope”, 7 Novembre 1918:
“ … una ricostruzione sontuosa e realistica di un’epoca storica poco nota, ma anche un severo monito inteso ad imprimere negli uomini d’oggi che fisicamente e spiritualmente gli attuali Prussiani sono della stessa razza degli Unni[note] Il 27 luglio 1901, durante la Ribellione dei Boxer in Cina, il Kaiser Guglielmo II diede l’ordine di “far ricordare il nome tedesco in Cina per un migliaio di anni, così che nessun cinese oserà mai anche solo guardare male un tedesco“. Questo discorso, in cui Guglielmo invocava la memoria degli Unni del V secolo, si accoppiava al Pickelhaube, l’elmetto indossato dall’esercito tedesco fino al 1916, una reminiscenza degli elmetti degli antichi Unni (e ungheresi), fece nascere, specialmente da parte dei britannici, la pregiudiziosa usanza di dare il soprannome di ‘Unni’ ai tedeschi durante la prima guerra mondiale.
Questa usanza venne adottata dalla propaganda alleata durante la guerra, che cercava di infondere odio verso i tedeschi evocando l’idea che fossero selvaggi brutali.[/note] e che, se anche non hanno fattezze barbare, la loro barbarie è identica. Come spettacolo, Attila non lascia nulla a desiderare: una sceneggiatura ampia comprende innumerevoli stupende scene di vita barbarica, scene di guerra piene di azione e di vigore, con minuziosa accuratezza di dettagli; ogni scena è attentamente studiata, dalle imponenti ricostruzioni architettoniche in stile romano o bizantino, fino alle uniformi, i costumi e gli equipaggiamenti delle comparse. “Attila” non è solo una fastosa parata spettacolare, ma poggia sulla vicenda storica del conquistatore unno che il poeta italiano Febo Mari ha ricostruito per lo schermo con robusto impianto drammatico.”
Pier da Castello, in “La vita cinematografica” nel febbraio 1918, scrive:
“…salvo per alcune inevitabili licenze poetiche e qualche occasionale manipolazione (la morte di Attila, ad esempio, avviene durante le nozze con Ildico e non con Onoria), … Mari è riuscito a mantenere intatti i fatti storici più rilevanti, inquadrandoli in quella immane tragedia che fu la calata dei barbari.
[…]
Fuori i barbari: ieri come oggi. Per chi sono passati i secoli di civiltà? Neppure l’aspetto ha saputo mutare il Normanno nella sua barbarie. Questa grande opera sorta dalle fucine dell’Ambrosio risponde mirabilmente alle sollecitazioni del Ministro Ciuffelli, per un indirizzo di carattere patriottico da darsi – massime in questi momenti – al cinematografo.
Da quest’opera avranno salutare tormento le plebi che delle odierne ore tristi sanno il dolore, sanno solo il sangue, ma non perché si versa; né sanno della vergogna che dura da secoli e del danno che ad ogni secolo si rinnovella pel sorgere del mostro che l’animo feroce dell’avo antico ha fatto più scaltro e feroce.”
I barbari, quindi, appaiono sempre come l’eterno e violento nemico da combattere, i germanici, gli uomini del nord, i pagani, hanno le stesse radici.
Primitivi e ignoranti devastatori, quei popoli stranieri sono trattati, sul grande schermo, come gli indiani d’America, i cattivi per antonomasia.
Un’idea ereditata dall’ottocento, dagli autori letterari occidentali di lingua neolatina, un idea magistralmente rappresentata dal pittore francese Joseph-Noël Sylvestre, nel dipinto “il sacco di Roma”, dove i visigoti di Alarico, nell’atto di rimuovere la statua dell’imperatore romano, appaiono nudi, sporchi e cattivi, a conferma del concetto che la cultura dei popoli barbari fosse di gran lunga inferiore alla raffinata ed evoluta cultura occidentale-romana-cristiana.
Una visione aberrante questa che, riportata negli insegnamenti storici della prima scolarizzazione, ha influenzato l’immaginario di molte generazioni, di uomini e donne con ancora nitido il ricordo delle conseguenze del nazionalismo tedesco che si appropriò, maldestramente, in nome dell’unificazione dei popoli germanici (pangermanesimo) e del mito della razza pura, dei valori e dei simboli proprio di quei Barbari.
Nel 1954 al cinema, Il re degli Unni ha il volto di un giovane e atletico Anthony Quinn, nel film “Attila” di Pietro Francisci. Nello stesso anno anche Jack Palance interpreterà lo stesso ruolo nel film “Il re dei Barbari” diretto da Douglas Sirk. Due facce simili, piene di vissuto e, diciamola tutta, abbastanza barabare.
L’immaginario collettivo delle popolazioni di lingua neolatina, dei milioni di ragazzi frequentatori del cinema dell’oratorio, sino alla fine degli anni sessanta, sarà ancora pervasa da un retaggio culturale avverso nei confronti del barbaro invasore così come raccontato dalla storia ufficiale.
Attila, nei film citati, viene “utilizzato” in storie spesso poco inerenti ai fatti realmente accaduti, in film perlopiù di propaganda. Nella scena finale del film interpretato da Quinn. Attila in armatura nera, incontra un bianchissimo Papa Leone Magno su cavallo bianco che lo intima di fermarsi.
La scena riprende un incontro epocale realmente accaduto, ripreso con un ottica enfatizzata dagli effetti speciali della nuova industria cinematografica del dopoguerra.
La bianca luce che scoraggiò le armate nere dell’invasore barbaro, quel bagliore proveniente da un muro di croci luminescenti che terrorizzò il temuto Attila, dal grande schermo di parrocchia illumina la strada da seguire. Il messaggio è chiaro: Fuori i barbari pagani. Siamo agli inizi della guerra fredda e nuove mura si costruiscono.
(continua …)